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venerdì 23 aprile 2010

LAGHI MAGICI D’ITALIA

Il patrimonio culturale dell’Italia non è costituito unicamente da splendidi monumenti e opere d’arte apprezzate in tutto il mondo, ma anche dal ricco corredo di narrazioni che il popolo ha tramandato nel corso dei secoli, narrazioni che possono essere di diverse tipologie e che possono essere suddivise in due grandi categorie: favole e leggende.

Delle prime vi sono molte raccolte, antiche o recenti, celebri o meno celebri, e per lo più si ambientano in un mondo del tutto fantastico, privo di riferimenti storici e geografici.
Al contrario le leggende forniscono sempre coordinate riguardo al contesto storico e ambientale cui fanno riferimento e, proprio per questo motivo, è piuttosto semplice risalire attraverso esse a un luogo conosciuto, a un personaggio celebre o anche alla ricostruzione di un fatto narrato in modo diverso dagli storici “ufficiali”.
Le leggende possono avere le più diverse origini e presentano anche una grande varietà di argomenti trattati e stili narrativi: nella maggior parte troveremo l’intenzione e la volontà di rileggere scarni elementi storici in modo da abbellirli e dotarli di significato, poi non mancheranno l’ammonimento morale, le riflessioni sulla malizia, sulla magnanimità e sulla furbizia che risiedono nel cuore degli uomini e, infine, elemento ricorrente è il senso dello stupore e della meraviglia che si provano di fronte ad avvenimenti apparentemente privi di logica e ritenuti soprannaturali. In particolare, caratteristica presente in tutte le leggende è l’affabulazione, ovvero il piacere di raccontare e di ampliare un racconto volando con la fantasia e rendendo la narrazione ancora più allettante per il lettore.

E’ fondamentale tramandare favole, leggende e superstizioni perché solo in questo modo si possono garantire e al tempo stesso rafforzare i nostri usi e costumi; infatti, solo mantenendo salde le proprie radici e rispettando la propria cultura natìa è possibile apprezzare a pieno le tradizioni degli altri popoli.
Noi stessi, quando leggiamo antiche leggende e favole, le rendiamo nostre e le arricchiamo di particolari, esattamente come hanno fatto le generazioni precedenti alla nostra; una tradizione popolare è viva solamente quando si mantiene dinamica, in quanto il suo patrimonio non si cristallizza a si mantiene in continua evoluzione.

In particolare in questa sede presenterò delle leggende, a mio parere molto interessanti, riguardanti tre laghi del nord Italia, tuttora mete di turisti curiosi.



IL LAGO DI LAVARONE1
 

Centocinquanta anni fa viveva a Lavarone un vecchio con due figli, bravi ragazzi che lavoravano nei campi tutto il giorno e che aiutavano il padre tutte le volte che fosse loro possibile.
Man mano, col passare del tempo, l’anziano si ammalò ma, prima di morire fece testamento e lasciò così ogni cosa ai suoi figli, a patto che tutto fosse diviso in parti uguali; l’unica eccezione era il bosco di faggi che lui possedeva a mezzodì dalla chiesa e che sarebbe stato ereditato dal figlio più meritevole.
I ragazzi rispettarono le direttive espresse nel testamento, dividendo tutto in parti uguali, eccezion fatta per il bosco. Per quanto riguardava quest’ultimo, essi decisero di andare in tribunale e consultare il giudice, il quale non seppe che consiglio dare; tuttavia i due ragazzi ebbero un’idea mentre erano sulla via del ritorno: una volta giunti a casa, avrebbero affilato un coltello per ciascuno e, l’indomani all’alba, sarebbero andati nel bosco a sfidarsi con i coltelli. Il vincitore avrebbe ereditato il bosco di faggi.
Giunti a casa, attuarono per l’appunto il proprio piano: affilarono i coltelli e andarono a dormire. Il giorno successivo si alzarono presto per prepararsi allo scontro, ma, avvicinandosi al luogo, ebbero la sorpresa di trovare un lago là dove prima c’era il bosco oggetto della loro contesa; essi non ebbero, quindi, bisogno di battersi e lasciarono il lago al Comune di Lavarone.
Secondo quando raccontato ancora oggi dalla gente locale, quando i pescatori vanno a pescare, nei vari punti del lago, tirano ancora oggi su alla superficie rami di faggio.



LA LEGGENDA DEL LAGO SANTO2


In molti si chiedono come mai il lago montano dominato dal monte Giovo, sul confine tosco-emiliano, sia detto “santo” e come spiegazione troviamo un’antica leggenda che viene tuttora raccontata dai vecchi montanari delle Tagliole.
Due secoli fa, nei boschi rigogliosi che circondano il Lago Santo, vivevano varie bestie feroci: in mezzo a volpi, faine e tassi apparivano anche dei lupi. D’inverno, quando la neve cadeva fitta, gli animali erano spinti dalla fame fuori delle loro tane e partivano alla ricerca di pecore, agnelli e conigli con cui nutrirsi.


In quell’inverno del 1801 vi era un vecchio lupo, predatore vorace e astuto, che aveva sottratto tante pecore e agnelli ai pastori della zona, nonostante questi avessero posto delle trappole nei passaggi obbligati e lungo i sentieri vicini alle case. Le orme lasciate sulla neve indicavano la venuta del lupo vorace e il suo ritorno nella tana del monte Giovo, mentre il sangue sparso qua e là lasciava intendere che l’animale avesse sacrificato molte vittime per saziarsi.
Una domenica Ulisse decise di comune accordo con Tonio di andare alla caccia del lupo, seguendo le orme da lui lasciate sulla neve; essi non sarebbero tornati a casa fino a quando non avrebbero ucciso l’animale.
Essi arrivarono presso la distesa ghiacciata del lago e lì, nei pressi del monte Giovo, attesero immobili che il lupo uscisse dalla sua tana, che sicuramente era nel bosco lì vicino; il lupo doveva quindi per forza passare innanzi a loro. Tuttavia quella mattina sembrava che l’animale non avesse intenzione di uscire e i due montanari trascorsero ore e ore di attesa finchè ad un tratto si sentì risuonare nel misterioso silenzio di quei luoghi la campana del mezzogiorno, che chiamava alla messa gli abitanti del luogo.
Udendo quel suono, Tonio uscì dal nascondiglio e disse ad Ulisse che sarebbe andato in chiesa, com’era solito fare ogni domenica; Ulisse lo guardò con meraviglia, quasi irridendolo, e rispose al compagno che lui sarebbe rimasto ad aspettare il lupo, per poi ucciderlo, scuoiarlo e riportarne a casa in trionfo la pelle.
Il tempo che Tonio partì per andare in chiesa, ecco che il lupo venne allo scoperto avanzando con cautela, muovendo pigramente il capo e annusando l’aria fredda invernale; Ulisse pronto, prese la mira e sparò. L’eco dello sparo risuonò a lungo nel silenzio della vallata.
Egli finì l’animale con un secondo colpo, sentendosi trionfante e già pregustando il fatto che la gloria sarebbe stata tutta sua, una volta tornato in paese. Nel frattempo si inginocchiò per scuioare il lupo, il cui sangue caldo, uscendo gorgogliando e a fiotti, scorreva a rivoli sulla neve, sciogliendola; nel momento in cui stava portanto a termine l’opera si sentì un rumore improvviso, come quello del vetro che si rompe: ecco che il ghiaccio si aprì, spezzandosi e Ulisse lanciò immediatamente un urlo disperato, vedendosi scomparire velocemente in compagnia del lupo nelle acque gelide del lago. Poi tutto tornò in quiete e silenzio.
Terminata la messa, Tonio fece ritorno da Ulisse ma scorse sul lago una grande chiazza di sangue e sentì poco distante gorgogliare l’acqua. Si mise immediatamente le mani tra i capelli e spalancò gli occhi, aveva capito tutto. Corse immediatamente lungo la strada e raccontò terrorizzato l’accaduto al paese, gli increduli si recarono al lago a vedere l’accaduto e rimasero ammutoliti dall’orrore.
In primavera, scomparsa la neve e scioltosi il ghiaccio, il lago riportò a riva, un giorno, il corpo del lupo, che giaceva inerte tra i sassi: tutto il paese accorse a vederlo. Di Ulisse però nessuna traccia, nemmeno gli altri rigurgiti del lago lo riportarono a riva e non torno mai più alla luce; si pensò che giacesse in fondo alle acque, impigliato negli sterpi.
Tuttavia da quel giorno le acque del lago fino allora quiete, non si sa per quale motivo, si agitarono; a volte traboccavano pericolosamente e scendevano fino a valle a danneggiare le case, gli ovili, i prati, spaventando gli uomini e i greggi.
Il Pievano, dopo aver riflettuto a lungo su questo fenomeno anormale, pensò di benedire le acque e di fissarle per sempre nel loro letto, facendole tornare quiete come un tempo. Il mattino dopo erano tutti in processione verso il lago; lì il Pievano, con volto serio ed imperioso pronunciò gli scongiuri, leggendoli dal vecchio libro unto che aveva portato con sé e asperse con l’acqua santa a lungo, più volte con gesti del braccio, le acque del lago. Una volta terminato il rito tornarono tutti nelle proprie case.
Da quel giorno le acque nè rumoreggiarono e nè strariparono più, rimasero immobili quasi come le montagne che le circondavano. Da quel giorno di benedizione il lago divenne “santo” e per questo motivo è chiamato tuttora Lago Santo.
 


IL LAGO DI SUBIOLO3


Il Subiolo è un lago con una superficie strettissima, circondato dalle montagne e situato non lontano dalla Valstagna; esso è alimentato dall’acqua che fuoriesce perennemente da sotto le rocce e quando piove si ingrossa notevolmente.
La tradizione narra che, tanto tempo fa, gli abitanti vollero misurare la profondità del lago; essi legarono una all’altra le corde delle cinque campane di Valstagna e, fermando un’estremità al battaglio del campanone, cercarono di raggiungere il fondo, senza riuscire nell’intento.
Sulle rive del laghetto si innalzano montagne rocciose, chiazzate da boschetti di faggi e con qualche ciuffo d’erba sparso qua e là.
Il lago di Sobiolo ha un emissario che confluisce nel Brenta: quando le piogge sono abbondanti, diventa profondo e impetuoso e le acque scorrono sopra grandi massi precipitati dalle montagne, spumeggiando rumorosamente; al contrario, quando il livello del lago si abbassa, lambiscono il muschio che si forma a pelo d’acqua.
Sopra all’emissario vi è un ponte chiamato allo stesso modo Subiolo: quando vi si passa di notte si sentono strida e zuffolii (in dialetto locale subioi) provenire dal lago che da lì non è visibile, poiché nascosto da una sporgenza del monte. Il nome Subiolo pare che derivi proprio da questi insoliti rumori notturni.
La popolazione locale sostiene che il luogo è abitato da fate e da beatrichi e che i subioi dipendono proprio dalla loro presenza. Tra le persone che hanno visto queste fate vi è il falegname Marco Michelini.
Una sera Marco era andato a trovare la fidanzata, stava tornando a casa con passo svelto e doveva attraversare proprio il ponte Subiolo; vi era già stato tante volte ma quella sera la Luna appariva più lucente del solito e le acque del Subiolo erano argentate.
Salito sul ponte, si sentì chiamare ma cercò di convincersi di essersi sbagliato. La voce ripetè nuovamente il suo nome molte altre volte, fino a quando si voltò e vide sulle acque delle fate danzanti che gli facevano segno di avvicinarsi: “Vieni, vieni con noi! Tu non hai mai provato la felicità che ti offriamo! Finchè splende la Luna, vieni a danzare con noi!”. “No, no! Laggiù c’è il lago profondo. Se vengo con voi annego.”
“Hai paura?” chiesero a Marco le fate ridendo. “Guarda, l’acqua è sparita, non c’è più! Vieni”.
L’acqua era scomparsa davvero, si potevano vedere i sassi del fondo luccicare sotto i raggi della Luna; le fate stavano sedute serenamente sul muschio dei massi, all’asciutto.
“No, no” ripeteva il giovane; sebbene fosse come soggiogato, non riusciva a staccarsi dal parapetto del ponte.
“Allora se non vuoi essere felice con noi”, dissero le fate, “ti vogliamo dare una grazia. Così ti ricorderai sempre di noi. Chiedi ciò che vuoi”.
Il giovane falegname, tremando, balbettò: “Vorrei…vorrei che le mie mani fossero capaci di eseguire qualsiasi lavoro d’intaglio”. “Va bene…E così sia!”, gli dissero le fate. “Ma, ricordati, non sarai mai ricco con il tuo lavoro”.
L’acqua riprese poi a uscire impetuosa dal laghetto spumeggiando contro i massi, le fronde dei faggi stormivano, l’ombra della montagna era immobile: la Luna era calata dietro la cima e le fate erano scomparse all’improvviso.
Da quel giorno Marco si trasformò in un abilissimo intagliatore e nella chiesa di Valstagna si possono tuttora ammirare le sue opere.


BIBLIOGRAFIA


Citroni, M.C., Leggende e racconti dell’Emilia Romagna, Newton Compton, Roma, 1983.

Coltro, D., Leggende e racconti popolari de Veneto, Newton Compton, Roma, 1982.

Di Gregorio, A. (a cura di), Leggende italiane, Volume I, RCS Libri, Milano, 2005.

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1 Fonte: I racconti di Luserna (già raccolti da G. Bacher), a cura di Alfonso Bellotto, Vicenza, 1978, pp. 161-65. “Storia” cimbra legata al mondo particolare della “piccola patria” dei Sette Comuni vicentini e di Luserna.
Il lago di Lavarone è un piccolo lago che si trova sull'omonimo altopiano, in provincia di Trento. È uno dei laghi più antichi dell'arco alpino; il suo fondo, infatti, è posto su una dolina a piatto, impermeabilizzata, dovuta ad uno sprofondamento risalente al 210 a.C.
L'alimentazione del lago è garantita da piccole sorgenti superficiali, le acque defluiscono per infiltrazioni sotterranee impiegando circa un'ora e mezza per risalire a 3 Km di distanza, nella valle di Centa, dove formano le cascate del Vallempach. Per il suo clima mite e per la particolare purezza delle sue acque, il lago di Lavarone costituisce per la zona degli altipiani un rilevante elemento di richiamo: è infatti attrezzato per la balneazione e la pesca.
Attorno a questo lago spesso passeggiava Sigmund Freud nel periodo in cui ha trascorso sue vacanze a Lavarone nel 1904, 1906, 1907 e 1923.
D'inverno è sede di uno stage per l'apprendimento della tecnica di salvataggio sotto il ghiaccio.
2 Fonte: F. Richeldi, Novelle del monte e racconti dal vero, Modena, 1976, p. 73.
Il Lago Santo modenese è un lago montano che si trova in provincia di Modena. Esso è alimentato da tre immissari: uno scende dalla Boccaia, un altro dalla costiera della Serra e il terzo dal terrazzo della Borra dei Porci; c'è invece un unico emissario posto all'estremità sud nei pressi del Rifugio Vittoria. Il lago ha un'origine mista, glaciale e di frana: circa 150 m sopra la superficie si trova una terrazza pensile, chiamato Borra dei Porci, che rompe l'uniformità della grandiosa parete orientale del Monte Giovo: questa terrazza ha una larghezza di 150 m e una lunghezza di 600 m, è ampia ed erbosa ed è percorsa da un piccolo rio che precipita nelle acque del lago.
3 Fonte: Rivista delle tradizioni popolari italiane a. I, maggio 1984, fasc. VI, p. 434.
Il Laghetto di Ponte Subiolo (chiamato anche dell'Elefante Bianco) si trova in Comune di Valstagna (VI). È una delle grotte più frequentate dai sub e dagli speleosub per la sua facilità di accesso, per le sue vaste dimensioni e per la sua grande suggestione. Nonostante ciò il laghetto ha causato la morte di 8 esploratori dal 1971 ad oggi ed è stato chiuso alle immersioni anche per un breve periodo.



Il lago di Lavarone



Il lago Santo



Il lago di Subiolo




domenica 11 aprile 2010

L’IDEA DELLA DISCENDENZA DIVINA PRESSO GLI SCIAMANI SIBERIANI


 
IL FIGLIO DEL DIO ULUU-TOJON1

Il’in Nikolaj.
Agosto 1925.

Tanto tempo fan, ad Atamajcy (nell’ulus2 di Namcy) viveva un uomo di statura eccezionale e con una forza fuori dal normale; il suo nome era Lukapyar. Un giorno egli, mentre andava a cavallo, notò una nuvola scura proveniente da occidente e dalla quale si udiva un canto; a giudicare dalla voce, a cantare era una donna:

Oh gigante Lukapyar!
tu, che possiedi un fodero animato
e un coltello sempre assetato di sangue!
Tu, che mordi un pezzo di grassa carne,
e hai le mani sempre insanguinate!
Il padre che ti ha creato,iIl sommo terribile sovrano,
ecco, ti manda questa cordicella,
messa in serbo solo per te,
per procacciarti il cibo.

Lukapyar guardò verso l’alto e assistette alla seguente scena: dal cielo scendeva serpeggiando una cavezza per cavalli con lunghe redini di crine intrecciato, striate di rosso vivace; egli allora alzò le braccia per afferrare quel dono e poi proseguì il suo cammino.
Era primavera, la neve ormai si stava pian piano sciogliendo e le prime acque cominciavano a sgorgare dalle ripide sponde dei piccoli fiumi; Lukapyar, avvicinandosi a un fiume, vide pascolare sulla riva opposta una mandria di cavalli con uno stallone. Scese immediatamente da cavallo e fece volteggiare nell’aria le lunghe redini che gli erano state donate, gridando: “Choruu, choruu, choruu!...”3.
Udendo le sue grida, tutta la mandria si mosse, radunandosi in un sol punto e gettandosi nel fiume per attraversarlo; quindi tutti i cavalli si diressero verso Lukapyar. Quest’ultimo gettò immediatamente sulla groppa della giumenta di testa la cavezza e le redini ricevute dal cielo; la giumenta si lasciò docilmente imbrigliare. Lukapyar l’attaccò al suo cavallo e si mise in cammino e venne così seguito da tutta la mandria.
Sembra che da allora Lukapyar si sia dedicato al furto di cavalli portando sempre con sé quella cavezza sacra, nella vita non conobbe mai sfortuna e nessuno riuscì mai a catturarlo. Dei suoi discendenti non è rimasto nessuno.
   

IL FIGLIO DI UN DIO “BIANCO” E QUELLO DI UN DIO “NERO”


Kozlov Vasilij. Maltancy.
Luglio 1921.

Si racconta che tanto tempo fa, nell’ulus Namcy viveva un anziano molto ricco di nome Juëdej Ugaalaach; egli aveva nove figli dei quali otto erano già sposati: alcuni di loro avevano lasciato il padre per vivere indipendentemente, gli altri erano rimasti con lui. Il più giovane, nonché il prediletto, era ancora scapolo.
In quello stesso ulus, ma lontano dalla zona in cui viveva questuomo, abitava un altro anziano, anche lui ricco, capo di un proprio nasleg4 e ritenuto da tutti un ladro di cavalli. Egli, inoltre, aveva un figlio e una figlia e Juëdej Ugaalaach chiese e ottenne per il suo figliolo più giovane, e ancora scapolo, la figlia di questo vecchio, ovviamente in cambio di parecchi soldi e di molti regali.
Sebbene il prezzo del riscatto fosse stato pagato per intero, il padre della ragazza rimandava il matrimonio e la consegna della figlia, inoltrando sempre nuove richieste di bestiame e via dicendo, venendo regolarmente accontentato.
Un giorno di primavera, una giovane giumenta di Juëdej Ugaalaach diede alla luce il suo primo puledro, un maschio dal manto pezzato di bianco, aveva inoltre una criniera che cresceva lungo tutto il dorso fino alla radice della coda, era era talmente debole da non potersi reggere in piedi.
Il vecchio padrone, venendo a sapere della nascita di un puledro così particolare disse: “Naqui per volere dello stesso Jurjung-Ajyy Tojon5 e mi considero figlio suo. Probabilmente è stato lui a farmi volutamente questo dono visto che noi, oltre agli altri beni, offriamo in dote alla fidanzata bestiame vivo condotto a briglia. Questo debole puledro non si reggerà sulle zampe fino al tardo autunno, ovvero fino a quando l’erba sarà diventata gialla e secca. Accuditelo con cura e avvicinatelo voi stessi alla mammella della madre”.
I servi seguirono il suo ordine: per tutta l’estate si presero cura del puledrino porgendolo alla madre; come aveva previsto il vecchio, l’animale si resse sulle zampe sole ad autunno inoltrato e divenne un ubasa6 straodinario. Il puledro crebbe e fu lasciato nella mandria come stallone; straordinariamente grosso e prolifico, divenne celebre nei dintorni con il nome di Mjullju-Boschong (lo sciamano immobile); esso prese con sé solo sei cavalle, quando nitriva sembrava che la terra rispondesse sussultando e che il cielo facesse eco tuonando. Juëdej Ugaalaach aveva già questo stallone quando combinò il matrimonio del figlio.
Un giorno quell’anziano si recò con il figlio dal suocero per concludere il contratto e prendersi finalmente la sposa; i due vecchi parlarono di questo e di quello, ma un tratto il padrone di casa venne fuori con questo discorso: “Noi, tu e io siamo persone illustri e rispettabili. Secondo me e secondo le nostre usanze, l’ultimo regalo prima del trasferimento della sposa deve essere adeguato alla nostra condizione. Ho sentito che possiedi uno stallone celebre, Mjullju-Boschong. Come ultimo regalo, in cambio di mia figlia, mi aspetto da voi metà della sua carcassa. Uccidilo, una metà la tieni per te e l’altra la dai a me!”
Le parole del consuocero impressionarono a tal punto Juëdej Ugaalaach  che divenne subito silenzioso e troncò la conversazione, pensando tra sé e sé: “Ma guarda un po’ che tipo è costui! Usando la figlia dal volto pallido come esca, si è appropriato di tutti i miei beni e ora vuole anche privarmi dello stallone Mjullju-Boschong? No, non lo avrà mai!”
Non promise nulla e, tagliando corto su questo argomento, tornò a casa. Il figlio si trattenne ancora un po’ presso la fidanzata; dopo la partenza del consuocero il padrone di casa disse al genero: “Tuo padre è andato via senza rispondere alla mia proposta. Sono affari suoi, ma puoi portarmelo tu, lo stallone Mjullju-Boschong. Lo farai approfittando di un giorno ventoso! A queste condizioni io non rimanderò di un sol giorno la partenza di tua moglie. Poiché sono una persona importante vorrei assaggiare la carne di questo famigerato cavallo!”.
Come genere, il giovane non voleva disubbidire al suocero (secondo le antiche tradizioni degli Iacuti l’autorità dei parenti della moglie era superiore a quella del proprio padre) e fu così che, scegliendo una giornata particolarmente burrascosa, gli portò lo stallone con la sua mandria di sei giumente; tutti e sette furono subito macellati. Si dà il caso che nella jurta7 del suocero, sotto il focolare fissato a un apposito perno che lo faceva girare su se stesso, fosse stato scavato un grosso deposito, dove furono per l’appunto sistemate tutte le carcasse.
Quel vecchio aveva un aiutante prediletto che lo sostituiva in tutto e per tutto ed eseguiva tutti i compiti che gli venivano assegnati, svelto come un uccello in volo. Un giorno il vecchio sentì dire che da qualche parte in quel di Megincy (un altro ulus sulla riva opposta del fiume Lena, quella destra) c’era un famoso cavallo. Ordinò allora a quel giovane di portarglielo alla briglia o sulle ali (modo di dire degli Iacuti per caratterizzare la velocità dell’andatura). Il giovane non perse tempo e ben presto gli portò il cavallo, che venne attaccato a un palo; egli uscì poi con la scure e, mirando alla fronte della bestia, lasciò partire un terribile colpo. La scure sibilò nell’aria e, anziché sul cavallo, finì sulla testa di un altro giovane che teneva le cime delle redini. Il capo della scure fece a pezzi il suo cranio.
La moglie del vecchio, presente all’incidente, si precipitò nella jurta del maritò e gridò:
“Vecchio, è successa una terribile disgrazia, nostro figlio ha ucciso un uomo!”.
Ma il vecchio rimase calmissimo e rispose: “Non è nulla, calmati, troveremo il sistema per sbarazzarci di lui!”. Uscì dalla tenda e si rivolse al figlio: “Senti ragazzo, questo cavallo potrebbe essere posseduto dallo spirito di una divinità, di un dio protettore! Magari al prossimo tentativo di ucciderlo capita un’altra disgrazia! Legagli la coda, poi lega le redini alle mani del giovane ucciso e lascia che venga trascinato dal cavallo!”.
Il cavallo, rimesso in libertà come aveva consigliato il vecchio, corse a casa trascinando dietro di sé il corpo di quel giovane. A casa fu deciso che un ladro di cavalli, dopo averlo preso, si era fracassato la testa rimanendo ucciso…Condussero a questo riguardo una piccola indagine e il cadavere dell’uomo fu sepolto. In questo modo la questione fu chiusa.
Per quanto riguarda Juëdej Ugaalaach, dopo la scomparsa dello stallone Mjullju-Boschong e della sua mandria, i nove figli del vecchio si misero a cercare, ma tutte le ricerche risultarono vane e il vecchio allora ordinò di interromperle. E disse: “Non riesco a immaginare che qualcuno, tra coloro che hanno dieci dita, abbia deciso di usarle a mio favore perché qualcuno, tra coloro che hanno cinque dita, abbia il desiderio di rubarmi. E’ stato lo stesso dio Jurjung-Ajyy a donarmi questi cavalli e probabilmente è stato ancora lui a disporre di portarmeli via!”.
Arrivò la primavera, le giornate erano diventate più lunghe e il tempo più caldo. In quei giorni un vecchio molto povero, parente di Juëdej Ugaalaach, andò in cerca di elemosina nei luoghi dove viveva il consuocero di quest’ultimo. Una volta giunto, il vecchio si fermò a trascorrere la notte nella jurta assegnata ai mandriani, ma chissà per quale motivo, stesse a lungo sveglio.
Stava però sdraiato nel suo giaciglio fingendosi addormentato. Nel frattempo entrò nella jurta una donna e cominciò a chiacchierare con quella che viveva lì. Questa a un tratto si mise a rimproverare l’ospite con queste parole: “Perché non hai diviso con me l’abbondanza di cibo? Ti sei completamente dimenticata di me?”. L’altra donna replicò: “Cosa ti salta in mente? Ero quasi riuscita a prendere in un secchio un po’ delle interiora di una cavalla e a nasconderle nella greppia dei vitelli, ma la mia padrona se n’è accorta e si è talmente infuriata con me che mi sono pentita di averlo fatto. E poi, per così poco!”.
E le donne continuano a chiacchierare.
“Ora avete macellato Mjullju-Boschong, il famoso stallone del vostro consuocero, e le sue sei giumente. Avrete certo abbondanza di cibo e di grasso del sottopancia e d’altro ancora!”.
“Eh, cosa vuoi che sia l’uccisione di bestiame, roba da niente! Ma qui ora si tratta di una persona. Sai, avevamo ordinato a uno dei loro uomini di portare da Megincy un cavallo…Hanno legato il cavallo al palo. Volevano ficcargli in fronte la scure, ma la scure è finita sulla testa del povero giovane che lo teneva. Poi hanno liberato il cavallo dopo aver legato il cadavere di quel giovane alla sua coda. Eccp che cosa combinano!”.
“Comunque avrete senz’altro una gran riserva di cibo!” “Eh, hanno mangiato tutto da parecchio. Cosa vuoi che abbiano conservato! Di Mjullju-Boschong hanno messo da parte per l’estate una sola coscia. L’hanno messa nel secchio di betulla insieme al latte scremato e cagliato e l’hanno portata nell’accampamento estivo”.
Il mattino seguente il vecchio mendicante, che aveva sentito tutte le chiacchiere delle donne, tornò di fretta a casa e raccontò tutto a Juëdej Ugaalaach. Questi, che nel frattempo aveva perso completamente la vista, perse subito un accompagnatore e partì per la città. Andandosene disse ai figli: “Porterò dalla città le autorità, nel frattempo voi badate alla casa”.
Dopo qualche giorno tornò con un rappresentante delle autorità, che aveva l’ordine di condurre un’inchiesta su indicazione del vecchio; pernottarono lì una notte e il giorno seguente andarono direttamente dal consuocero. Sotto il focolare scoprirono il deposito, ma questo era vuoto. Si recarono allora all’accampamento estivo e nel grosso secchio di betulla trovarono, insieme al latte cagliato, una coscia di Mjullju-Boschong. Fu ordinato di condurre quella donna che era stata testimone dell’uccisione e la interrogarono con grande rigore. La donna, non nascondendo nulla, raccontò tutto nei dettagli e il figlio fu così arrestato e portato in città per il processo.
Il vecchio padre cominciò a trascinarsi di qua e di là dai giudici e dalle autorità. Per risarcire chi era stato derubato e per i compensi sottomano alle autorità del momento, avide di guadagno, egli scialacquò quasi tutti i suoi beni. Infine, il figlio fu mandato ai lavori forzati e il padre e la madre rimasero soli. Un giorno il vecchio disse alla moglie: “Io sono stato creato per volere dello stesso Chara-Suorun (“Corvo Nero”), sono stato destinato a non conoscere, finchè vivrò in questo Mondo di Mezzo, nessun genere di sventura, a non imbattermi in nessuna disgrazia. Ma Juëdej Ugaalaach è nato per volontà dello stesso Jurjung-Ajyy (“bianco, santo creatore”) e proprio per questo, essendo superiore per volere del destino, lui ha avuto la meglio su di me. E’ chiaro che la sua antica superiorità si è manifestata!”.
E la vecchia replicò: “Ciò che è stato è stato, e nessuna forza potrà mai vendicarci. Per noi è finita!”.
Il vecchio si scosse e aggiunse: “No, aspetta, non tutto è finito! Vedi, io ho un vicino, Kutujach-ojun, che con la forza dei suoi spiriti riusciva ad attraversare la cruna di un ago. Bisogna chiedergli di compiere una kamlan’e8 e divorare Juëdej Ugaalaach  con tutta la sua famiglia. E che vadano al diavolo!…Questa nostra unica figlia dal bianco viso nascendo ci ha reso infelici!”.
Invitò lo sciamano e gli fece fare una kamlan’e. Quello danzò tre giorni e tre notti di seguito, ma le suppliche ai suoi spiriti non ebbero successo. In nessun modo gli riuscì di uccidere Juëdej Ugaalaach. Tornando dai suoi voli lo sciamano disse: “Il suo dio protettore ha sbarrato la strada che porta a lui e perciò non si può raggiungere”.
“Se è così, allora significa che il loro destino è forte e nessuna forza può avere su di loro il sopravvento…Tuttavia, non negarmi un altro tentativo. Vai da chi mi ha creato, da Chara-Suorun  che ha disposto affinchè non mi trovi a mal partito durante la mia vita in questo Mondo di Mezzo”.
Lo sciamano acconsentì e sciamanizzò ancora una notte.
Si recò da Chara-Suorun e gli disse: “Juëdej Ugaalaach, figlio di Jurjung-Ayjj da lui stesso creato, ha reso infelice il figlio da te creato!”.
Chara-Suorun rispose: “”E’ vero, io l’ho creato destinandolo a sfuggire le disgrazie terrene. Se oggi ha delel avveristà, questo succede perché il suo avversario è stato creato da un dio a me superiore, Jurjung-Ajyy-Tojon. Comunque ecco, prendi questa cordicella e gettala vicino allo steccato di Juëdej Ugaalaach! Se qualcuno di loro la troverà, tutti i membri della famiglia diventeranno ladri di cavalli e non sfuggiranno alla prigione”.
Con queste parole Chara-Suorun gli consegnò una cordicella insanguinata, lunga dieci machovye saženi9. Lo sciamano, ritornato sulla Terra, gettò quella cordicella vicino all’abitazione di Juëdej Ugaalaach; la corda stette lì a lungo. I parenti e i mandriani di Juëdej Ugaalaach passarono spesso lì accanto, ma senza vederla. Soltanto molti anni dopo un nipote di quel vecchio (su richiesta del quale la cordicella fu gettata), il figlio di sua figlia, vide la cordicella e la portò a casa. Da allora lui divenne incorreggibile ladro di cavalli. Giorno e notte, sempre lontano da casa, si occupava solo di quello; spesso veniva acciuffato e messo in carcere. Ogni volta i parenti lo facevano uscire pagando enormi somme, ma ogni volta lui ci ricascava.
Per colpa sua la sua famiglia dilapidò tutto il bestiame. Lo stesso Juëdej Ugaalaach morì e così anche la sua vecchia. I figli diventarono poveri e tutti piano piano si trasformarono in ladri di cavalli.
L’altro vecchio visse ancora a lungo e ogni volta che veniva informato di una nuova disgrazia capitata alla famiglia del suo nemico, si rallegrava e diceva:
“Bene, bene, significa che anche loro sono venuti sulla mia strada e dividono il mio destino!”.
Ecco in che modo gli Iacuti di Namcy, come si racconta, diventarono ladri di cavalli.
Il primo a narrare questa storia è stato Afanasij Korjakin, ormai venuto a mancare da tanto tempo.


NOTIZIE BIOGRAFICHE DEI NARRATORI 


Il’in Nikolaj, iacuto del secondo nasleg di Odunincy, dell’ulus occidentale di Kangalassy. Analfabeta, abitante del villaggio. Il suo nasleg è situato nella remota taigà, lontano dai centri culturali. Gli abitanti vivono di allevamento di bestiame e di caccia e tra loro è completamente sconosciuta l’agricoltura. Qui, più che in qualsiasi altro posto, è lecito aspettarsi tracce delle antiche credenze e tradizioni degli Iacuti.


Kozlov Vasilij, 34 anni, iacuto del nasleg Maltancy, dell’ulus occidentale di Kangalassy. Analfabeta, ha vissuto sempre nel suo villaggio. Discendente di una ricca e illustre stirpe, secondo la tradizione familiare è il custode di leggende popolari che riguardano il passato e, nonostante la giovane età, può considerarsi un narratore competente.
 

BIBLIOGRAFIA


Ksenofontov, G.V., Legendy i rasskazy o šamanach i jakutov, burjat i tungusov (Leggende e racconti sugli sciamani iacuti, buriati e tungusi), Mosca, 1930.

Sieroszewski, W., 12 Lat w Kraja Yakutov (12 anni nella terra degli Iacuti), Warsaw 1900.

Vagge Saccorotti, L. (a cura di), Leggende sugli sciamani siberiani, RCS Libri, Milano, 2005.




1 Uluu-Tojon: capo degli spiriti maligni celesti, terribile antagonista di Jurjung-Ajyy-Tojon (una delle divinità più importanti del pantheon iacuto, puro creatore e dio dell’olimpo). In iacuto tojon significa “signore”, “capo”.
2 Con il termine ulus (pl. ulusy) si indica una sorta di confederazione tribale che raggruppa diversi nasleg (unità amministrative che raggruppano da uno a più di trenta clan) sotto il dominio di un khan o di altro capo comune.
3 E’ il grido abituale degli iacuti per richiamare i cavalli.
4 Nasleg: unità amministrative che raggruppano da uno a più di trenta clan.
5 Jurjung-Ajyy Tojon: bianco, puro creatore, dio dell’olimpo, sovrano, uno tra i nomi più comuni della divinità più importante del pantheon iacuto. L’idea di jurjung-tojon viene generalmente associata al caldo estivo e al calore del sole.
6 Ubasa: In iacuto “puledro di un anno”.
7 Jurta: tenda a base circolare e tetto a cono o semisferico, usata dalle popolazioni nomadi dell’Asia centrale e della Siberia centro-meridionale.
8 Kamlan’e: la seduta sciamanica da qam (“sciamano”), voce delle popolazioni turche della Siberia meridionale.
9 Machovye safeni, sing. machovaja sažen’: antica misura russa pari alla distanza che corre tra la punta dei diti medi delle braccia allargate.



In blu è indicato il territorio della Jacuzia.



Simbolo della Repubblica Sacha (Jacuzia) dove possiamo notare la presenza di un animale molto importante per gli Jacuti, il cavallo.



Sciamano jacuto.



Fiume Amga.

sabato 10 aprile 2010

TESTIMONIANZE DELLO SCIAMANESIMO BURIATO E TUNGUSO


MALATTIA E DELIRIO DEGLI SCIAMANI BURIATI


Stepanov Michajl.
Basaevskkij Ulus1. Distretto di Ol’zony.
Provincia di Echirit – Bulagat.
3 novembre 1926.

Colui che sta per diventare sciamano, prima di raggiungere il proprio obiettivo, giace per lungo tempo malato, egli ha la sensazione che le anime dei suoi antenati sciamani – i suoi utcha- vengano a istruirlo.
Quando arrivano questi sciamani defunti, si cade in trance e si parla con loro come se fossero vivi; essi non possono essere visti dagli estranei, a volte si presentano da soli, altre volte in una moltitudine.
Queste anime tormentano, uccidono, tagliano il corpo con il coltello, fanno a brandelli la carne e la buttano, trafiggono il ventre affinchè il loro discendente diventi sciamano.
Nel momento in cui trafiggono e tagliano la carne, lo sciamano giace mezzo morto, il suo battito cardiaco è debole, solo parte dell’anima è ancora nel corpo e le mani e il viso divengono man mano cianotici; solo in un secondo momento egli rinviene, riuscendo a muovere le dita e a respirare un po’ meglio.


Buchašeev Bulagat.
Distretto Bulagat.
Provincia di Echirit – Bulagat.
28 ottobre 1926.

Quando una persona non è ancora divenuta sciamano, gli utcha conducono la sua anima in cielo, a “Saajtani Suulgande” (suulgan significa “riunione”) e la istruiscono. Al compimento della fase di istruzione, la carne del futuro sciamano viene cotta, affinchè egli sia pronto per il suo compito.
Anticamente era usanza comune cuocere tutti gli sciamani, perché apprendessero in questo modo il sapere cosmico.
Nel frattempo lo sciamano giace semimorto per sette giorni e i parenti, riuniti al suo fianco, cantano “Il nostro sciamano vivrà, ci aiuterà!”. A queste sedute non partecipano donne, ma solo uomini; inoltre non possono presenziare estranei mentre gli utcha cuociono la sua carne.
Centocinquanta anni fa, nel quarto rod2 Charanutskij del vedomtsvo3 Kudinskij, viveva un buriato di nome Aldyr-Areev, che giacque ammalato per ben quindici anni. Egli perse il lume della ragione, tanto che, da quanto si racconta, era solito correre nudo d’inverno per cinque verste4 fino a quando non incontrò il proprio utcha, Baruunaj (di Chonggodar – Šošolok), che lo invito a smettere di commettere tali sciocchezze e lo informo che sarebbe diventato sciamano. Gli utcha tagliarono tutta la carne di Aldyr-Areev, la misero a cuocere e, in un secondo momento, la rimisero insieme insieme, quindi egli rinacque come sciamano e, trascinato di qua e di la, curava e guariva persone ovunque.
Molti anni prima, proprio nel distretto Bulagat, era morto un grande sciamano nero, Mylyksen Baltaevskij, che, per divenire tale, offri allutcha settanta dei suoi parenti; e importante precisare che egli non aveva un proprio utcha ma, insinuandosi con la forza, ne prese uno altrui e per questo motivo, come punizione, per diventare sciamano dovette sacrificare le vite di settanta suoi parenti.


Bulgatov Buin.
Distretto di Ol’zony, villaggio Oloevskij.

Basilchanov Bagduj.
Basaevskij ulus – Distretto di Ol’zony
29 ottobre 1926.

Il buriato Mylyksen offrì al suo utcha settanta dei suoi parenti per diventare sciamano. Prima egli non aveva utcha, ma sacrificando settanta persone si era impadronito di un nuovo utcha. Solo lo sciamano che possiede un proprio utcha legittimo non deve offrire nulla in cambio.


Stepanov Michajl.
Ulus Basaevskij.
3 novembre 1926.

Se uno sciamano giace per lungo tempo ammalato, è usanza che per tutta la durata della malattia un suo compaesano invochi Bucha-Nojyn5, tutti gli altri sacri antenati e le divinità. In questo caso, quando si parla di malattia, non è chiaro se il narratore Stepanov Michail faccia riferimento alla malattia originaria che rappresenta la chiamata al servizio sciamanico o alle malattie casuali che colpiscono chi è già sciamano. Secondo la tradizione nove persone che conoscono i nomi degli utcha intonano canti: uno di loro tiene in mano i bastoni per sciamanizzare e tutti onorano gli utcha, nel frattempo lo sciamano giace seduto e, non appena giunge il suo utcha, perde i sensi, mantenendo le braccia allargate e immobili e il corpo irrigidito come un bastone.
Tutte le volte che arriva l’utcha lo sciamano sviene e si irrigidisce e allora è necessario sollevarlo dalla testa, se ciò non avviene egli rimane per terra anche per due o tre ore; quando questi si alza, l’utcha parla già con lui sussurrandogli nell’orecchio e lo sciamano ripete tutto meccanicamente. Questo rito si chiama “chiamare a sé lo spirito”.


MALATTIA E DELIRIO DEGLI SCIAMANI TUNGUSI


Čolko Ivan, sciamano.
Basso Tunguska, urocišče6 Ingaarykta.
31 maggio 1925.

Prima di essere definitivamente uno sciamano, colui che si accinge a diventarlo sta male per lungo tempo e ha la testa confusa; arrivano gli spiriti maligni che spaccano, lacerano e tagliano la sua carne a pezzetti e ne bevono il sangue. Successivamente ne staccano la testa e la gettano in una fucina dove vengono forgiati i diversi accessori di ferro del suo costume. Gli spiriti in questione appartengono agli sciamani defunti.


Semёnov Semёn, sciamano.
Basso Tunguska, foce del fiume Siёkgioma.
7 giugno 1925.

Una persona non puo diventare sciamano se nella sua stirpe non ve ne sono stati degli altri; infatti il dono sciamanico lo riceve solo colui che ha degli antenati sciamani, in quanto viene tramandato di generazione in generazione. Lo stesso fratello maggiore del narratore, Ilja Semёnov, era sciamano e allo stesso modo lo erano anche il nonno paterno e quello materno; la sua nonna materna era una iacuta di Cirinda del clan Džakdakar degli iacuti Essejskie7.
Quando Semёnov Semёn compie la Kamlane8, arriva lo spirito del fratello defunto Ilja e parla con la sua bocca; lo sciamano racconta che e divenuto tale alleta di quindici anni su invito dei suoi antenati sciamani dopo un anno intero di malattia, in cui presentava gonfiori addominali e frequenti svenimenti. Il malessere scompariva solo quando egli cominciava a cantare. Gli antenati giunsero da lui per sciamanizzarlo, mettendolo in piedi come un palo e lanciandogli frecce  fino a fargli perdere i sensi; poi fecero a pezzi la sua carne, separando le ossa e contandole per vedere se erano sufficienti affinche Semёnov potesse diventare sciamano. Generalmente, durante questo procedimento, il futuro sciamano, pallido ed esangue, trascorre lintero giorno senza ne mangiare ne bere e al termine del rito gli antenati gli offrono da bere del sangue di renna.
Lo stesso rito viene osservato con ogni sciamano tunguso, che puo cominciare a sciamanizzare soltanto dopo che gli antenati hanno in tal modo dissezionato il suo corpo e contato le ossa.
Molto tempo prima sul fiume Tunguska viaggiava uno studioso, Aleksej Makarenko, che prego Semёnov di sciamanizzarlo e che vide esaudita la sua richiesta.


Mafusuilov Timofej.
17 gennaio 1925.

Secondo le concezioni tunguse, una persona prima di diventare sciamano si ammala di malattia mentale per qualche anno e sono proprio gli sciamani defunti a portare la pazzia; in queste occasioni si dice “sembra che lantico sciamano sia penetrato”.
Presso i Tungusi, gli sciamani si dividono in quelli posseduti dall’alto e in quelli posseduti dal basso: i primi curano le malattie delle renne, gli ultimi ogni tipo di malattia degli uomini
Da qualche parte nel cielo gli spiriti degli sciamani morti tagliano a piccoli pezzi lo sciamano tunguso e poi lo infilzano su pertiche appuntite; secondo l’usanza per un buon sciamano occorrono quattro pertiche.


L’ALBERO E GLI ANIMALI SCIAMANICI PRESSO I TUNGUSI


Semёnov Semёn, sciamano.
Basso Tunguska, foce del fiume Siёkgioma.
7 giugno 1925.

Lassu nel cielo esiste un albero speciale, tuuru, dove vengono allevate le anime degli sciamani, prima che essi diventino tali; sui rami di quest’albero vi sono dei nidi: più in alto si trova il nido, più forte sarà lo sciamano che vi viene allevato, egli saprà di più e vedrà più lontano degli altri sciamani.
La cassa del tamburo sciamanico è ricavata da un larice vivo, e lo stesso albero continua a vivere in ricordo e nel culto di quell’albero-tuuru dove viene allevata l’anima dello sciamano. In memoria di questo tuuru, ad ogni kamlan’e lo sciamano pianta presso la tenda dove avviene il servizio un palo con uno o più rami trasversali; il palo stesso è chiamato tuuru sia dai Tungusi del Basso Chatanga (località del Basso Tunguska) che da quelli dell’Angara, diversamente i Tungusi venuti a contatti con gli Iacuti lo chiamano serge. Questo palo viene ricavato da un tronco lungo e sottile di larice, ai rami trasversali viene appesa della stoffa bianca e, in particolare, i Tungusi dell’Angara vi appendono la pelle di una renna sacrificale. Un tuuru simile a quello dei Tungusi del Basso Tunguska si trova anche presso le comunità del Medio Chatanga.
Secondo la tradizione tungusa, quando uno sciamano agisce, la sua anima sale in cielo a Dio tramite questo palo, poiché durante la kamlan’e il palo cresce e raggiunge la sommità della sfera celeste.
In occasione della creazione della Terra e degli uomini, Dio creò due alberi: uno maschile, il larice e uno femminile, l’abete.


Čolko Ivan, sciamano.
Basso Tunguska, urocišče Ingaarykta.
31 maggio 1925.

La dove finisce il giorno e comincia la notte vi e un albero che si chiama tuuru, su di lui, nei nove rami, ci sono dei nidi uno piu alto dell’altro: in questi nidi si allevano le anime degli sciamani.
Ogni sciamano ha la propria madre-animale che ha le corna e richiama l’immagine dell’alce.
   


NOTIZIE BIOGRAFICHE DEI NARRATORI


Basilchanov Bagduj, buriato dell’ulus Basaev, nel distretto di Ol’zony. Analfabeta. Residente in un villaggio.


Bulgatov Buin, 31 anni, buriato del distretto di Ol’zony, del villaggio di Bulaevo, provincia di Echirit-Bulagat. Analfabeta. Residente in un villaggio.


Čolko Ivan, tunguso della stirpe dei Čapogiry della regione Turchansk. Di professione sciamano, vive nel Basso Tunguska presso Ingaarytka. In presenza di Ksenofontov ha compiuto una kamlan’e su un malato. Egli sa parlare solo tunguso e le sue testimonianze sono state tradotte da due membri della cooperativa Tungus di Erbogačen insieme ai quali Ksenofontov e Čolko hanno navigato 25 giorni in barca da Erbogačen (un grande villaggio nell’alto corso del fiume N. Tunguska) fino alla città Nuova Turuchansk, nell’estate del 1925.


Mafusuilov Timofej, 28 anni, tunguso della stirpe dei Bujagiry, della settima generazione dei Kangalassy, che transumano tra i fiumi Lena e Aldan. Sa parlare bene anche in iacuto.


Semёnov Semёn, 60 anni, tunguso della stirpe dei Čapogiry della zona di Turuchan. Al momento degli incontri viveva alle foci del fiume Siёkgioma, affluente del basso corso del Tunguska.


Stepanov Michajl, 53 anni, buriato dellulus di Basaevsk, di distretto di Ol’zony, della provincia di Echirit-Bulagat. Analfabeta, sciamano noto in tutta la zona, quasi tutti giorni viene condotto dai suoi parenti per le sue sedute sciamaniche. Stepanov testimonia volentieri del culto sciamanico e ha dato la massima disponibilità per la pubblicazione di quanto da lui raccontato.
Nell’inverno del 1923, su invito del prof. B.E. Petri alle sue lezioni pubbliche nella città di Irkutsk, davanti a un grande auditorio, Stepanov ha dato dimostrazione del rito sciamanico chiamando e accogliendo in sé gli spiriti degli antenati, fornendo così dati interessanti sullo sciamanesimo allo studioso.
Nel novembre del 1925 Ksenofontov trascorse un’intera settimana con lui, accompagnandolo e assistendo alle sue sedute; Stepanov gli dettò i testi in lingua buriata delle sue invocazioni sciamaniche dall’inizio alla fine, cercando di non dimenticare i passaggi chiaveuchašeev Bulagat, 70 anni, buriato del distretto di Bulagat, della provincia di Echirit-Bulagat. Analfabeta. Non è mai uscito dal suo ulus.
 

BIBLIOGRAFIA


Czaplicka, M.A., Aboriginal Siberia, Oxford University Press, Oxford, 1969.

Eliade, M., Lo sciamanismo e le tecniche dellestasi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1992.

Ksenofontov, G.V., Legendy i rasskazy o šamanach i jakutov, burjat i tungusov (“Leggende e racconti sugli sciamani iacuti, buriati e tungusi), Mosca, 1930.

Vagge Saccorotti, L. (a cura di), Leggende sugli sciamani siberiani, RCS Libri, Milano, 2005.





1 Con il termine ulus (pl. ulusy) si indica una sorta di confederazione tribale che raggruppa diversi nasleg (unità amministrative che raggruppano da uno a più di trenta clan) sotto il dominio di un khan o di altro capo comune.
2 Secondo Czaplicka, anticamente i clan buriati erano chiamati yagans. I Russi hanno fondato diversi clan amministrativi (rod), ognuno composto da diversi yagans.
3 Diversi rod sono poi uniti all’interno di uno stesso gruppo amministrativo chiamato vedomtsvo, che nel linguaggio quotidiano ha il significanto di “dicastero”, “ente”.
4  La versta è un’antica unità di misura di lunghezza russa e corrisponde a circa un chilometro.
5  Bucha-nojyn è tradotto con ”toro”, ”principe” ed è il mitologico antenato del popolo buriato, uno dei figli del grande dio Esege-Malaan-Tengri, sceso dal cielo sulla Terra per difendere il suo popolo dalle tentazioni degli spiriti maligni nord-orientali. In suo onore gli sciamani buriati organizzano all’inizio dell’anno le cosiddette tajlgany, ovvero preghiere pubbliche, invocazioni e sacrifici di vario genere.
6  Con questo termine si indica ciò che costituisce un confine, un limite naturale come un burrone, una montagna; oppure una zona che si distingue dai luoghi circostanti, come un boschetto in una radura, una palude in un bosco ecc.
7 Gli iacuti Essejskie erano con buona probabilità i tungusi iacutizzati.
8 Il termine kamlan’e indica la seduta sciamanica e deriva da qam (sciamano), voce delle popolazioni turche della Siberia meridionale.



Donna buriata che indossa il costume tradizionale.



Sciamana buriata.



Sciamana buriata si prepara per la seduta.



In rosso è indicato il territorio corrispondente alla Buriazia.



 Foto d’epoca di una famiglia di Tungusi davanti alla loro classica tenda ricoperta di pelli di renna.



Nomade tunguso con l’inseparabile renna. La foto risale al 1930.



In giallo è indicato il territorio corrispondente alla Tunguska.